Un fischio, Samba, Morte. Come l'ho visto io.
(Cesare Pezzoni, cantante e musicista dei Cartavetro)
Non posso dire di conoscere con
esattezza lo stato di salute del teatro indipendente italiano. Anche se ne ho
sempre masticato. Affermazione che a ben vedere vale quasi sempre, visto che
tutti i pareri sono tutto sommato circostanziati a quel poco che si riesce a
conoscere, che non è mai tutto. Ma valga come premessa. Non ho molto da dire in
una recensione, se per “recensione” si intende “sforzo comparativo all'interno
di un campione di spettacoli analizzato”. Non so se la Compagnia Teatro
Campestre è più o meno brava di altri. Ma, essendo a mio modo un punk, ho la
forte convinzione che quando le cose hanno qualcosa da dire, tutto arriva. Non
credo serva essere addetti ai lavori per capire uno spettacolo. Specie se
funziona. Per questo, posso dirvi con esattezza cosa mi hanno detto, cosa mi ha
stupito, cosa mi affascina di questo spettacolo.
Credo di non sbagliare se inizio
col dire che lo “Un fischio, samba, morte” ha per temi la morte e la precarietà, intesa come caducità della vita,
ma anche come precarietà, quella lì: quella del lavoro, di cui non ci si
lamenta mai abbastanza. Tutto con una rilettura ironica dei miti e degli
stereotipi della cultura cattolica e un po' anche della dottrina sociale della
Chiesa. Ma andiamo con ordine.
L'architettura dello spettacolo,
in sé, è tutt'altro che banale. Lo spettacolo si struttura in 3 momenti
narrativi intrecciati, ognuno con la sua cronologia di eventi personale, il suo
ritmo e il suo registro linguistico. I tre momenti sono rappresentati da una
precisa dislocazione spaziale sul palco, che segue la diagonale che va
dall'angolo destro a ridosso del fondale, passando per il centro del palco,
fino al proscenio, alla sinistra dello spettatore. Ognuno dei tre spazi, pur con
mezzi semplici, ha una propria caratterizzazione luminosa. A larghe spanne, i
tre momenti narrativi sono tre piani ognuno con un punto di vista. Quello
adiacente al fondale ha un tono più solenne, come un “passato riletto” o come
una realtà atemporale, legata al tema archetipico della morte, vista dai vivi.
Quello che si sviluppa nella parte centrale del palco, è il piano della
quotidianità, in cui la morte e l'assenza di sicurezza lavorativa si
intrecciano e trapelano quasi accidentalmente in dialoghi strappati ad altre
faccende, mentre nemmeno i personaggi se ne accorgono. Il piano sul proscenio,
caratterizzato da una recitazione più tragicomica e grottesca, nenie,
preghiere, litanie, ha un tono fortemente allegorico e vira spesso il tono
complessivo verso l'astratto, ma allo stesso tempo impone chiavi di lettura e
rilettura degli argomenti inscenati, con cui rimane fortissima la connessione.
Ho da aggiungere che nello
spettacolo si fa un gran uso di diverse tecniche di rappresentazione, ci sono
due lunghi momenti di sola musica e gestualità, di cui uno in particolare,
basato su movimenti sincroni, ripetuti e coordinati perfettamente tra i tre
attori in scena, sfocia in uso ritmico del gesto che quasi riporta alla danza;
allo stesso modo i momenti grotteschi della narrazione sono figli di certa
clownerie contemporanea. Insomma: tanta tanta carne al fuoco. Troppa? Beh, se
proprio devo trovare un difetto a uno spettacolo che comunque trovo
riuscitissimo, forse è proprio l'ostentato desiderio degli autori/attori di
dimostrare in un solo spettacolo tutto quanto hanno imparato del teatro
contemporaneo. Un peccato veniale, tipico di tante opere prime, tipico dei
primi dischi di tante band di talento. Il primo, si sa, è il disco composto in
una vita. Penso sia qualcosa di simile per uno spettacolo. Tanta tanta carne al
fuoco, quindi, ma niente affatto troppa.
Anzi l'espediente funziona alla
perfezione: i tre momenti narrativi si intrecciano e si arricchiscono
reciprocamente di senso, i continui cambi di linguaggio e di tema, confluiscono
in una trama sempre più chiara, al meno dal punto di vista semantico.
Francamente, avrei mal sopportato
uno spettacolo sulla precarietà del lavoro. Oddio c'è chi li ha fatti e molto
bene, e di certo credo alla funzione sociale del teatro, ma la retorica è
sempre dietro l'angolo, e c'è sempre il rischio di “recentismo”: parlare di
attualità senza riuscire a coglierne il senso in una prospettiva di lungo
termine, legata ai temi archetipici della condizione umana. Questo
riuscitissimo contrappunto tra la Morte, quella vera, e la Precarietà, la morte
sociale dei nostri tempi, proietta sulla morte un'ironia amara e allo stesso
tempo arricchisce il tema sociale del lavoro precario di una prospettiva
profondamente esistenziale, legata all'insicurezza, allo spreco del proprio
tempo, al consumismo umano di cui un'intera generazione, la mia, è oggetto.
A fine spettacolo ci si alza,
felici delle proprie risate amare e consapevoli di avere assistito qualcosa che
dice qualcosa di molto profondo su noi stessi. E credo che non si potesse
chiedere di meglio.