Recensione di Cesare Pezzoni, ottobre 2011


Un fischio, Samba, Morte. Come l'ho visto io.
(Cesare Pezzoni, cantante e musicista dei Cartavetro)
Non posso dire di conoscere con esattezza lo stato di salute del teatro indipendente italiano. Anche se ne ho sempre masticato. Affermazione che a ben vedere vale quasi sempre, visto che tutti i pareri sono tutto sommato circostanziati a quel poco che si riesce a conoscere, che non è mai tutto. Ma valga come premessa. Non ho molto da dire in una recensione, se per “recensione” si intende “sforzo comparativo all'interno di un campione di spettacoli analizzato”. Non so se la Compagnia Teatro Campestre è più o meno brava di altri. Ma, essendo a mio modo un punk, ho la forte convinzione che quando le cose hanno qualcosa da dire, tutto arriva. Non credo serva essere addetti ai lavori per capire uno spettacolo. Specie se funziona. Per questo, posso dirvi con esattezza cosa mi hanno detto, cosa mi ha stupito, cosa mi affascina di questo spettacolo.
Credo di non sbagliare se inizio col dire che lo “Un fischio, samba, morte” ha per temi la morte e la  precarietà, intesa come caducità della vita, ma anche come precarietà, quella lì: quella del lavoro, di cui non ci si lamenta mai abbastanza. Tutto con una rilettura ironica dei miti e degli stereotipi della cultura cattolica e un po' anche della dottrina sociale della Chiesa. Ma andiamo con ordine.
L'architettura dello spettacolo, in sé, è tutt'altro che banale. Lo spettacolo si struttura in 3 momenti narrativi intrecciati, ognuno con la sua cronologia di eventi personale, il suo ritmo e il suo registro linguistico. I tre momenti sono rappresentati da una precisa dislocazione spaziale sul palco, che segue la diagonale che va dall'angolo destro a ridosso del fondale, passando per il centro del palco, fino al proscenio, alla sinistra dello spettatore. Ognuno dei tre spazi, pur con mezzi semplici, ha una propria caratterizzazione luminosa. A larghe spanne, i tre momenti narrativi sono tre piani ognuno con un punto di vista. Quello adiacente al fondale ha un tono più solenne, come un “passato riletto” o come una realtà atemporale, legata al tema archetipico della morte, vista dai vivi. Quello che si sviluppa nella parte centrale del palco, è il piano della quotidianità, in cui la morte e l'assenza di sicurezza lavorativa si intrecciano e trapelano quasi accidentalmente in dialoghi strappati ad altre faccende, mentre nemmeno i personaggi se ne accorgono. Il piano sul proscenio, caratterizzato da una recitazione più tragicomica e grottesca, nenie, preghiere, litanie, ha un tono fortemente allegorico e vira spesso il tono complessivo verso l'astratto, ma allo stesso tempo impone chiavi di lettura e rilettura degli argomenti inscenati, con cui rimane fortissima la connessione.
Ho da aggiungere che nello spettacolo si fa un gran uso di diverse tecniche di rappresentazione, ci sono due lunghi momenti di sola musica e gestualità, di cui uno in particolare, basato su movimenti sincroni, ripetuti e coordinati perfettamente tra i tre attori in scena, sfocia in uso ritmico del gesto che quasi riporta alla danza; allo stesso modo i momenti grotteschi della narrazione sono figli di certa clownerie contemporanea. Insomma: tanta tanta carne al fuoco. Troppa? Beh, se proprio devo trovare un difetto a uno spettacolo che comunque trovo riuscitissimo, forse è proprio l'ostentato desiderio degli autori/attori di dimostrare in un solo spettacolo tutto quanto hanno imparato del teatro contemporaneo. Un peccato veniale, tipico di tante opere prime, tipico dei primi dischi di tante band di talento. Il primo, si sa, è il disco composto in una vita. Penso sia qualcosa di simile per uno spettacolo. Tanta tanta carne al fuoco, quindi, ma niente affatto troppa.
Anzi l'espediente funziona alla perfezione: i tre momenti narrativi si intrecciano e si arricchiscono reciprocamente di senso, i continui cambi di linguaggio e di tema, confluiscono in una trama sempre più chiara, al meno dal punto di vista semantico.
Francamente, avrei mal sopportato uno spettacolo sulla precarietà del lavoro. Oddio c'è chi li ha fatti e molto bene, e di certo credo alla funzione sociale del teatro, ma la retorica è sempre dietro l'angolo, e c'è sempre il rischio di “recentismo”: parlare di attualità senza riuscire a coglierne il senso in una prospettiva di lungo termine, legata ai temi archetipici della condizione umana. Questo riuscitissimo contrappunto tra la Morte, quella vera, e la Precarietà, la morte sociale dei nostri tempi, proietta sulla morte un'ironia amara e allo stesso tempo arricchisce il tema sociale del lavoro precario di una prospettiva profondamente esistenziale, legata all'insicurezza, allo spreco del proprio tempo, al consumismo umano di cui un'intera generazione, la mia, è oggetto.
A fine spettacolo ci si alza, felici delle proprie risate amare e consapevoli di avere assistito qualcosa che dice qualcosa di molto profondo su noi stessi. E credo che non si potesse chiedere di meglio.