1.
Pariamo con voi. Chi siete? Cosa fate nella vita oltre
al teatro? Da quale formazione teatrale provenite?
Siamo una letterata dalle vaghe aspirazioni
(boh), una pittrice (aaah) e un ingegnere atipico (eh sì). Se ci volete
assumere costiamo poco. Proveniamo tutti dal laboratorio di teatro e libera
espressione Gruppolimpido e quando possiamo facciamo seminari ed altre
esperienze artistiche.
2.
Cos’è il Teatro per voi, a questo punto? Quale percorso
immaginate come compagnia?
Per noi il teatro è il teatro. La nostra
compagnia, che per scaramanzia si chiama gruppo (“band” per gli anglofoni) (oh
yeah), si pone come obiettivo una crescita che non comprende solo la
recitazione, ma tutte le fasi di uno spettacolo: dall’ideazione, alla regia,
all’apparato scenico, all’organizzazione e promozione.
3.
Raccontate il percorso che vi ha condotti a questo
spettacolo.
Abbiamo fatto per due anni l’Orso di Cechov
per darci il tempo di trovare il nostro “modo”. Da lì abbiamo deciso di essere
un Gruppo di Teatro Campestre, cioè non propriamente una compagnia, ma un trio
che ogni tanto cerca l’ispirazione nei ruscelli, nei prati e nelle braghe di
velluto. Alla settima versione abbiamo capito che era l’ora di fare qualcosa di
tutto nostro. E siamo tornati in campagna.
4.
Se doveste spiegare a un non-genovese come funziona il
teatro a Genova, cosa direste?
C’è un francese, un tedesco, un americano e
un italiano.
5.
Conoscevate il Rural Indie Camp e il Rural Indie
Theatre? Come avete reagito alla proposta di partecipare?
Sì, l’abbiamo fatto noi. Ma prima di noi,
c’era Disorderdrama con il festival musicale.
6.
Quest’anno gli imprevisti fluviali sono stati tanti, il
nostro teatro naturale ci ha traditi e abbiamo dovuto spostare tutto al chiuso.
Come avevate immaginato il vostro spettacolo sul fiume? Come avete provveduto
all’adattamento nel piccolo teatro parrocchiale di San Bartolomeo?
Lo spettacolo doveva svolgersi sulla
piattaforma e sfruttare un pedalò come seconda postazione; i silenzi li
avrebbero riempiti il fiume e le macchine sulla statale. Un po’ di questo
“esterno” è rimasto perché era con noi al momento della creazione. In più, il
nostro lavoro da sempre si basa sull’agilità, che significa anche adattamento
alle esigenze del luogo. Il teatro parrocchiale, poi, ha comunque un che di
campestre. Abbiamo lasciato in proscenio gli stivali di gomma che avremmo
dovuto indossare e ce la siamo cavata con l’immaginazione.
7.
Parliamo del 10 settembre 2010, scaletta, risposta del
pubblico, assistenza tecnica, rapporto con gli altri colleghi. Siete soddisfatti?
È andato tutto bene, i gruppi erano ben
assortiti e ben alternati (tanto la scaletta l’abbiamo decisa noi).
8.
Se doveste, in breve, recensire gli altri spettacoli,
cosa scrivereste?
Erano spettacoli molto diversi, potremmo
riassumere dicendo: Saffo Blesa lirico, Finalmente Nessuno
tecnologico-primitivo, SMS 2010 Romei e Giuliette classicontemporaneo.
9.
Parliamo dell’organizzazione del Festival. Pecche?
Aspetti positivi?
La mancanza del fiume è stata probabilmente
una perdita per quanto riguarda la curiosità del pubblico, ma è anche vero che
ci siamo risparmiati il freddo! Possiamo dire che, da sopra il palco, il clima
era tutt’altro che glaciale.
10. Il
Rural Indie Theatre nasce come punto di incontro tra compagnie appena formate
che operano nella stessa città e il pubblico dell’entroterra. Pensate che possa
essere un appuntamento annuale utile? In cosa lo migliorereste?
Anche da questo punto di vista ci piacerebbe
crescere, e sarebbe bello che il festival fosse un appuntamento creativo oltre
che ricognitivo (dice betta). Il prossimo anno, comunque, lontani dalla Notte
Bianca! (olééé olé olé olééé…e la bresà…e la bresaola)