Intervista di Elisabetta Granara a Dmag, dicembre 2011

Sabato 10 dicembre al Teatro della Caduta, è andata in scena la morte: la morte comune, la
morte abituale, la morte consueta. “Un fischio, samba, morte” non è stato uno spettacolo
macabro, anzi, un lavoro di riflessione dedicato a tutti coloro i quali in un futuro divorato dal
superfluo e dall’effimero si immaginano defunti: istantanee comico-grottesche che tentano di
svegliare, senza supponenza, le menti di noi giovani “cadaveri”.
Perché…“quel che sarete voi, noi siamo adesso: chi si scorda di noi si scorda di se stesso”.

Il palcoscenico ha visto tre “anime in pena” abbozzare il ritratto di una vita reale che li scava e li
consuma. Le immagini, via via, si sgretolano di fronte ad un pubblico attonito, coinvolto in questo
spettacolo ruvido, carico di tensione e scarno di dialoghi. La mimica e la cantilena volutamente
esasperate liberano l’inquietudine che rimbomba dentro i loro corpi.
Oggetto della catarsi non è la crisi, materiale o interiore che sia, il disagio soffocato di anime
satolle. E’ molto di più, è molto di meno.
Senza divagazioni, senza congetture: il benessere ci soffoca, l’effimero ci corrode e dietro i
nascondigli emozionali dentro i quali ci trinceriamo ogni giorno forse esiste dell’altro. Un’alternativa
indefinibile ma che è stata ricercata, sul palco, con incalzante frenesia.

A tu per tu con Elisabetta Granara, curatrice del Rural Indie Theatre e componente del Gruppo
di Teatro Campestre di Genova
che interpreta lo spettacolo per la prima volta qui a Torino:

Quale tipo di formazione hai avuto e quale disciplina del teatro hai approfondito negli
anni?

Le mie competenze artistiche si sono sviluppate all’interno del Laboratorio di Teatro e Libera
espressione
a Genova e grazie alla frequentazione di numerosi seminari: ho approfondito
maggiormente il linguaggio del corpo, alla ricerca dell’equilibrio e dell’espressività fisica che a mio
parere precedono e migliorano la comunicazione vocale. Il corpo è il naturale mezzo di espressione
del pensiero e delle esperienze, è insieme ricettore e filtro delle sensazioni. Durante una
performance qui al Castello di Rivoli nell’ambito della mostra temporanea “Exhibition, Exhibition
ho imparato a equilibrare il peso di ogni singola parte del corpo e la mia postura ancora goffa è
diventata più fluida. Il corpo sorprendentemente muta e si trasforma in relazione alla fatica o allo
sforzo che deve compiere.

In una città come Genova, dove i canali ufficiali forse non aprono spesso le porte al
teatro sperimentale, cosa significa aderire a “Til(T), un “circuito di teatri indipendente”?

Fanno parte di un circuito indipendente le compagnie teatrali che non hanno spazi propri e
sovvenzioni provenienti dagli Enti Pubblici: per questo motivo esse si costituiscono in una “rete” che
poi funziona come una sorta di “mappatura” delle presenze artistiche sul territorio. Attraverso
un’autonomia ben definita i progetti culturali si sviluppano e si confrontano, facendo tesoro delle
diversità. Esiste molta collaborazione e solidarietà tra i soggetti e anche per questo la cultura non
accademica riesce a sopravvivere. In cambio di una quota di iscrizione minima è garantita una
partnership e una visibilità mediatica importante.

A fronte della vostra esperienza e della genesi di questo spettacolo perché lo “spazio
naturale” è elemento essenziale della vostra ricerca?

Sono nata e cresciuta in campagna, immersa nella quiete della natura fino all’adolescenza. Non
coglievo che la monotonia dovuta all’assenza di attrattive; crescendo ho sentito il richiamo di questi
luoghi, ho imparato ad amarli a concepirli come fonte di ispirazione. Un giorno, tre anni fa, durante
una breve gita presso un ruscello, sono stata investita da un turbine di stimoli sensoriali difficili da
ritrovare in ambiente metropolitano che mi ha portata alla sperimentazione. I dettagli e le
percezioni rendevano riconoscibile la bellezza intrinseca delle cose favorendo la concentrazione e
rendendo fluida la riflessione. In quell’occasione il trio informale di cui facevo parte, insieme a
Chiara Valdambrini e Luca Agricola, ha concepito l’idea dello spettacolo “L’orso” di Cechov, la
recitazione del testo base in condizioni di difficoltà fisica, ad esempio immersi vestiti nel letto di un
torrente in un rituale poi diventato consueto e che funziona da catarsi tutta personale. Due anni
dopo, con una formazione in cui si è inserito Carlo Strazza, è nata l’idea dello spettacolo di cui
stiamo parlando, scaturito dalle nuove esigenze espressive di tre giovani precari. Mi sono ritrovata a
indagare le cause della mia e della nostra “morte”.

La morte intesa in senso “cerebrale” è un tema che interessa tante persone. Perché
facciamo finta che non esista, perché se ne parla poco, e perchè ve ne occupate voi in
questo spettacolo?

Durante i grandi cambiamenti della vita sono convinta che si “muoia” un po’: quando finita la fase
formativa si entra nel mondo del lavoro si piomba in un ambiente assolutamente a se stante
(proprie regole) ove si ha la sensazione di sprecarsi, in termini di tempo e di energie: siamo tutti un
po’ stupidi da perderci nella superficialità della vita quotidiana. Noi ridiamo di e con la gente di
questa nostra “stupidità”, non in maniera presuntuosa, ma costruttiva, grazie a un linguaggio
leggero e scherzoso.

In che modo vi ponete rispetto al mondo reale?
Sono attratta dagli aspetti della socialità che si ritengono consolidati: i rapporti tra le persone o tra
gli individui e la religione. Nello spettacolo sottolineiamo la superficialità con cui spesso si ricordano i
defunti: le frasi fatte, i luoghi comuni, la banalizzazione della sofferenza.

A chi è rivolto lo spettacolo?
Lo spettacolo è rivolto ai giovani, alle persone che sono e si sentono tali. Vorrei far loro capire in
maniera assolutamente fraterna che la vita è costituita da una superficie liscia di quotidianità e di
una componente profonda, magica. Le passioni ci potranno resuscitare, ci renderanno saturi di
un’esistenza vissuta pienamente. Le passioni ci renderanno degni della “fine” e della morte nella sua
migliore accezione.
Dmag

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